Alla memoria di Lorenzo Bandini

Non ricordo se fossero gli ultimi mesi del '67 o i primi del '68 e non ricordo neppure da dove e perché io ed il mio amico Marco stessimo rientrando a Milano percorrendo la Cassanese. Ma questo poco importa.
Con Marco avevo fatto tutto il liceo ed ora frequentavamo insieme ingegneria. Lui aveva quella che per me era una grossa fortuna: il padre, affetto dalla paura di volare, usava una Ferrari per spostarsi nei lunghi viaggi di lavoro. Le volte che la Rossa doveva andare dal meccanico, veniva affidata a Marco, Marco mi avvisava ed andavamo insieme. Vent'anni, una vita davanti e una Ferrari sotto il sedere: cosa volere di più? L'officina che si prendeva cura del mezzo era quella di Freddi: il suocero di Bandini. E fu così che conobbi Lorenzo.
Quel giorno, dicevo, stavamo percorrendo la Cassanese ed alle porte di Milano Marco mi dice:
"Ti spiace se ci fermiamo un attimo al Cimitero di Lambrate? C'è la tomba di Bandini, mi han detto che è molto particolare e son curioso di vederla."
Quando Lorenzo era morto, Marco aveva pianto, in silenzio, voltandosi per pudore e fingendo di soffiarsi il naso: lo conosceva da tempo e gli voleva bene.
"Certo, dai fermiamoci." - dissi io, sia perché ne avevo desiderio, sia perché sapevo quanto ci tenesse il mio amico.
A quel tempo il Cimitero di Lambrate era piccolo, completamente diverso da oggi e l'ingresso era uno spiazzo di terra a fianco della strada e due corte rampe di scale in pietra che portavano al livello del campo: piccolo, raccolto come un cimitero di campagna. A destra, dopo il cancello e le colonne in cemento, il gabbiotto del custode.
"Scusi, ci sa indicare la tomba di Bandini? ...... il corridore, il pilota della Ferrari."
"Certo, prendete il vialetto principale, questo, e percorretelo tutto. Quando finisce, guardate a sinistra e lo riconoscete subito. - rispose il custode con una specie di sorriso - Non potete sbagliare."

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Oggi il Cimitero di Lambrate è completamente diverso: i cimiteri crescono e si sviluppano più delle città.
La tomba di Lorenzo invece è rimasta uguale: una sopralevata in marmo bruno che s'interrompe di netto, la linea di mezzeria in bronzo riporta date e nomi: dalla nascita, alle vittorie più importanti, fino a quella in cui la curva si tronca: "Montecarlo 10 maggio 1967"  seguita da una piccola croce.
Alla base, la riproduzione del suo casco, cinto da una corona d'alloro, e una bandiera a scacchi.

Marco ed io ci allontanammo in silenzio: groppo in gola e pelle d'oca nascosti da reciproco pudore. Senza parlarci, senza guardarci.

Marco è morto nel '99 stroncato da un cancro cui, prima di arrendersi, tenne testa per tre anni: ne aveva appena compiuti 52.
Le poche volte che vado a trovare mia mamma che riposa cento passi dopo Lorenzo, mi fermo sempre un attimo davanti alla "sopraelevata": rivivo lui e rivivo Marco.
Arrivo da mia madre, le dico con la mente le parole che lei avrebbe voluto sentirmi dire con la voce, ma che il mio carattere ha sempre impedito arrivassero alle labbra.

Poi mi allontano in fretta, accendo una sigaretta e torno al presente.