ANNI VISSUTI IN FERRARI

Fino al '72, anno della mia laurea, ho avuto due sogni: essere un pilota e poter progettare una Ferrari da corsa, F1 o prototipo che fosse, meglio se entrambe. Mi piaceva pensare a Parkes, pilota ed ingegnere, ma nulla impediva ai miei sogni di ragazzo di pensare più in grande.
Svanito il sogno di pilota per trascorsi limiti d'età, restava il secondo.
Prima della laurea ho avuto due esperienze (che oggi chiamerebbero stage) presso un team italiano e poi in una casa motoristica inglese.
Dopo la laurea, nell'attesa della chiamata a militare, tornai presso il team italiano: non avevo uno stipendio, solo un rimborso spese, ma imparavo un casino ed avevo la garanzia di essere assunto una volta assolti gli obblighi di leva. Fu un periodo di un anno abbondante molto bello: capivo cosa volesse dire progettare, ascoltavano i miei pareri e, quando una mia idea era presa in considerazione toccavo il cielo con un dito. La struttura era composta da un "capo" nel vero senso della parola, da tre ingegneri e una cinquantina tra operai e meccanici. Più il sottoscritto, apprendista stregone. Quando iniziava la stagione, mi dividevo tra commissario di percorso o, se mi chiamavano, come pedina aggiunta del team.
Nell'aprile del '74 infine arrivò la chiamata alla leva. Arrivò in un modo strano che un giorno vi racconterò per i suoi aspetti singolari. Certo avrei preferito un congedo illimitato permanente e maledissi quell'anno e mezzo buttato via. Invece fu la mia fortuna. A metà del '75, quando ridivenni "uomo libero", la prima crisi petrolifera era già scoppiata e le assunzioni d'ingegneri avevano subito uno stop: anche nel team per il quale avevo lavorato gratis. Però il kulo nella vita è essenziale: nel mio anno e mezzo di militare, ero entrato in contatto con una ditta (capisco che il discorso è confuso, ma non posso dirvi di più sennò mi "scopro" troppo) che decise di far correre una F2. Mi offrirono il ruolo di secondo ingegnere di pista: uno dei giorni più belli della mia vita!
L'avventura durò un paio d'anni - stupendi - nei quali giravo tutti i circuiti d'Europa ed entravo in contatto con personaggi che fino ad allora avevo solo visto in foto.
Era ancora un'ambiente pulito, sano, fatto d'appassionati più che da managers. O almeno così appariva.
Sapevo però che quel periodo avrebbe avuto una scadenza e continuavo a prendere contatti, anche perchè, stando in pista, mi sembrava di giocare e continuavo a pensare che progettare un motore fosse il mio vero lavoro.
Così un giorno mi arrivò una chiamata dalla Ferrari. Una gioia incredibile, un sogno sognato e raggiunto. Un sogno che durò poco. Già alla fine degli anni '70 la Ferrari era una struttura molto diversa da quella che da semplice studente avevo visitato una decina d'anni prima. Si può dire che già da subito (assieme ad un'altra dozzina di tecnici) fui alle dirette dipendenze di Forghieri che, come tutti i geni, era un terribile accentratore. Lui progettava davvero, noi controllavamo i calcoli, progettavamo piccoli particolari e passavamo molto tempo in sala prova o ad analizzare i pezzi che cedevano. Ovviamente all'inizio ero l'ultima ruota del carro, ma, piano piano, scalavo in alto e non era certo mia intenzione mollare anche se in effetti non progettavo e neppure frequentavo le piste se non per le prove private e, solo occasionalmente, per i GP. Quando Furia cominciò a convocarmi, i suoi rapporti con Piccinini erano già guasti ed io capii di essermi legato al carro sbagliato: ma di questo non mi sono mai pentito.
In ogni caso le stanze dei bottoni erano già da tempo chiuse per i tecnici, Forghieri escluso, e se venivi convocato era spesso per prendersi un solenne caziatone, dopo un'anticamera anche di ore.
I momenti migliori erano nelle sessioni di prove private: non c'era la pressione asfissiante delle gare e potevi avere un contatto diretto con i piloti, anche scherzando con loro, ma soprattutto facendoti spiegare le loro sensazioni, cosa che con me tutti hanno fatto volentieri sapendo che per due volte il sedere su una F3 l'avevo messo (ed in questo, mostrare la cicatrice sulla gamba sinistra mi fu utile, per conquistarmi la loro fiducia Smiley ). A volte, quando non mi capacitavo del perchè i tempi non scendessero e mi accorgevo che il pilota scuoteva la testa perdendo fiducia su ciò che stavamo provando, alzavo la voce e dicevo: "Ora salgo io e ti faccio vedere!". Ovviamente era uno scherzo e tutti scoppiavano a ridere, ma era un buon metodo per allentare la tensione e resettare l'ambiente.
Spesso a Fiorano, ma sempre in orari differenti, il Drake faceva una fugace apparizione. Si piazzava lontano dai box e restava impiedi, immobile per diversi minuti. Sembrerà incredibile ma in quei giri i tempi miracolosamente scendevano. Alla fine faceva convocare il pilota o i piloti (ma sempre separatamente) nel suo ufficio. I tecnici mai.

Di dicerie e di aneddoti in quella decina d'anni ne ho appresi molti, ma la maggior parte sono cosa nota o senza alcun reale fondamento e gli altri di nessuna rilevanza.
Le confidenze fattemi le tengo per me proprio perchè tali: è un mio principio che ho sempre adottato in tutti i momenti della mia vita.

Un paio di cose posso dire, perchè non fanno male a nessuno.

Il giorno prima della partenza per Zolder, incrociando Gilles gli dissi: "Ti ho sentito in tv suonare la tromba: riprovaci quando ne inventeranno una a motore." Lui abbozzò un sorriso, ma solo con le labbra e non col cuore.

A Monza '88 passai una mano attorno alla spalla di Michele:
"Se non era per te col cavolo che oggi si vinceva, Gherardo si era già accontentato."
"Grazie - rispose - anch'io ho avuto la sensazione che stesse correndo contro di me e non contro Ayrton. Mica poteva lasciarsi passare da me che sono in partenza, mentre lui è confermato! Ma tu non sei stanco di questo ambiente?"
"Tienlo per te: alla fine della prossima stagione anch'io cambio aria."
E così feci.