Storia del Casco – di Paolo Baldinotti

Il casco è ormai oggetto indissolubile dalla Formula 1 (e ogni altro tipo di corsa automobilistica o motociclistica) e dei suoi piloti, tanto da esserne una delle principali caratterizzazioni; l’identificazione tra il pilota e la colorazione è immediata, univoca e, anzi, ormai è praticamente l’unica con la progressiva riduzione della dimensioni dei numeri di gara apposti sulle monoposto.

Il casco è anche divenuto molto più che un semplice accessorio o un vitale elemento di protezione ma un vero e proprio condensato di tecnologia grazie ad una continua evoluzione alla ricerca della massima sicurezza e del migliore comfort. Il casco è anche un vero e proprio cartellone pubblicitario, dove ogni centimetro quadrato è pagato a peso d’oro in considerazione dell’alto grado di visibilità.

Ma per ripercorrere l’evoluzione tecnico-stilistica del casco bisogna tornare indietro fino all’alba delle corse automobilistiche all’inizio del secolo scorso e ritrovarne le origini.

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Alle origini delle corse si usavano delle cuffie. Nella foto Nino Farina.

In effetti il casco è nato da subito come una protezione del pilota ma, nel periodo glorioso delle prime sfide sulle strade sterrate dell’epoca, il suo compito era soprattutto quello di difendere il pilota dalla polvere, al pari degli occhialoni.

Il prototipo del casco era quindi una sorta di cuffia allacciata al mento. Di cotone, di lino, in seguito di materiali più robusti come il cuoio; prima i “drivers” usavano dei normali berretti, spesso calcati con la visiera a rovescia per ripararsi da colpi d’aria. Rimasero largamente adottate nonostante la presenza dei primi caschetti motociclistici che qualcuno, come Chiron intorno agli anni trenta, cominciò ad usare.

Le cuffie divennero elemento di caratterizzazione, spesso la colorazione ricalcava i gusti personali del pilota abbinandosi all’abbigliamento o alla colorazione della vettura. Varzi impiegava una cuffia di seta bianca uniformandosi al suo cliché di eleganza, Nuvolari l’aveva in pelle nera ricongiungibile direttamente dalle sue precedenti esperienze in moto.

Parallelamente gli occhialoni costituirono l’elemento di maggiore importanza per la protezione degli occhi mantenendo altresì una corretta visione anche ad alte velocità con lenti resistenti agli urti e prive di deformazioni ottiche.

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Alberto Ascari con uno dei primi tipi di casco a calotta.

Bisogna aspettare il secondo dopoguerra per veder comparire il casco; Varzi, Villoresi; il Conte Lurani e Nino Farina furono tra i primi ad usarlo pur se non in maniera continuativa. I materiali adottati erano noce di cocco, sughero, fibra di vetro e i primi materiali plastici. Non erano che semplici calotte semicircolari ma si può dire che si cominciava a comprendere maggiormente quale era l’esigenza primaria e il modo di proteggere garantendo un grado si sicurezza maggiore rispetto a prima, sia pure ancora insufficiente

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Juan Manuel Fangio con il casco in voga nei primi anni cinquanta con paraorecchie di tela e pelle.

Il casco Cromwell era forse il più diffuso nella prima metà degli anni cinquanta, con calotta superiore a “scodella”, paraorecchie in pelle che fungevano anche da allacciatura, e visiera frontale in plexiglas che scendeva fino alla bocca. Le varianti erano tante; c’è chi faceva a meno della visiera per utilizzare i classici occhialoni, chi non aveva paraorecchie, la “bavetta” frontale parasole non era sempre impiegata.

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Il casco "jet" in due modelli leggermente diversi.

class="testo" align="left">Verso la fine degli anni cinquanta avvenne la prima sostanziale innovazione con l’arrivo dall’America del casco “jet” che garantiva una migliore protezione alle orecchie e alla nuca grazie all’estensione in quelle zone della struttura del casco stesso. Lo statunitense Dan Gurney e Jack Brabham furono tra i primi utilizzatori di questo nuovo tipo costruito soprattutto in fibra di vetro con interno in polistirolo espanso (le fibre vegetali vennero utilizzate sempre meno per la loro infiammabilità); le principali marche erano la Les Leston e la Bell. Gli occhiali erano simili a quelli impiegati nello sci e spesso i piloti se ne portavano un paio di scorta d’emergenza sotto la tuta; altri adottavano la visiera. Tra le protezioni impiegate ricordiamo foulards, bavagli o vere e proprie cuffie ignifughe per proteggere la parte esposta del viso.

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Jackie Stewart con un casco "jet" nella sua versione più evoluta.

Ma il passo più importante nella storia del casco avvenne alla fine degli anni sessanta con l’introduzione dell’integrale ad opera ancora dell’artefice dell’uso del “jet”: Dan Gurney. Nel 1968 l’americano impiegò il primo casco integrale della storia che si prolungava anche davanti al mento proteggendo completamente il capo del pilota in una unica calotta resistente. L’uso divenne ben presto generalizzato e solamente Ragazzoni e Rindt continuarono ancora per qualche tempo col “jet”.

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Il bavaglio in tessuto ignifugo nel casco integrale di James Hunt.

Le innovazioni continuarono però. Nel 1973 Stewart impiegò un attacco del tubicino per l’ossigeno collegato ad una bombola nell’abitacolo da sfruttare in caso di incendio, nel 1974 Fittipaldi aggiunse un bavaglio ignifugo attaccato al bordo inferiore del casco come schermo per il fumo che altrimenti sarebbe entrato.

L’evoluzione tecnica si è spinta ancora nella ricerca di soluzioni atte a migliorare la resistenza e la funzionalità del casco; la leggerezza è uno dei parametri principali per via delle grandi forze centrifughe che si verificano in curva. Si cominciarono a studiare nuovi materiali come il kevlar e la fibra di carbonio, in grado di garantire leggerezza e resistenza. Gli interni sono diventati più sofisticati con tessuti ignifughi come il nomex e l’FPT. La feritoia è stata via via rimpicciolita e le visiere, inizialmente in normale materiale plastico, vennero realizzate in Lexan o policarbonati stampati ad iniezione e aumentate di spessore. Anche il sistema di chiusura venne evoluto in modo da permettere l’apertura da parte del pilota con una sola mano con un semplice dispositivo a scatto.

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L'italiano Elio De Angelis adottava un casco con una particolare conformazione delle prese d'aria frontali.

Negli anni ottanta le marche più diffuse in F1 erano la Bell, la Simpson, la GPA, la Nava, la Jeb’s, la AGV e la Akai. Ogni casco deve rispettare severe norme di omologazione e il normale decadimento obbliga un frequente cambio. Le allacciature sono un altro elemento importante in modo da permettere un veloce sfilamento ma grande sicurezza in caso di incidente (al Nurburgring Niki Lauda perse in casco per lo sfilamento delle cinghie). Anche l’appannamento è un inconveniente che è stato attentamente studiato dalle case con particolari studi sulla circolazione dell’aria interna per evitarlo; in ogni caso si utilizzano specifici prodotti detergenti antiappannanti per la pulizia delle visiere.

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Ayrton Senna e un tipico casco degli anni novanta.

Verso la fine degli anni ottanta, con la progettazione di monoposto sempre più profilate dal punto di vista aerodinamico, ha preso importanza anche lo studio dei flussi d’aria nella zona dell’abitacolo per evitare fastidiosi vortici sul casco alle alte velocità che potessero in qualche modo infastidire il pilota. Accurati furono per esempio gli studi dei parabrezza in casa Mclaren per rispondere alle precise esigenze di piloti come Prost e Senna, ma proprio in quel periodo si cominciò a pensare ad apposite appendici aerodinamiche da posizionare sui caschi per migliorare la situazione e qualcosa del genere era avvenuto nelle corse americane della Formula Cart.

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Michael Schumacher con un casco dotato di piccole appendici aerodinamiche.

Ma l’innovazione del casco si rivolse anche in campi ancora più tecnologici, per rispondere anche al progressivo ingresso dell’elettronica nelle monoposto. Vennero studiati sistemi avanzati per la visione di dati (normalmente presenti nei display di cruscotti e/o volanti) con la proiezione nella visiera con la tecnologia “a testa alta” di diretta derivazione aeronautica.

I primi esperimenti vennero portati avanti dalla Lotus nel suo periodo “crepuscolare” rappresentando un vero e proprio “canto del cigno” per la gloriosa e storica casa inglese. Il sistema prevedeva un apparecchio ricevente i dati dalle centraline elettroniche posizionato dentro al casco e dotato di un proiettore laser puntato sulla parte interna della visiera in grado di proiettare le immagini opportunamente “sfocate” in modo da essere visibili correttamente dall’occhio del pilota che “focalizzava” normalmente sulla distanza della pista. Teoricamente valido, l’apparato pose problemi che lo staff del team inglese non poté cercare di risolvere anche per questioni di budget e gli esperimenti vennero abbandonati.

Più recentemente la Ferrari adottò un sistema molto semplificato in grado di segnalare al pilota, attraverso dei led luminosi, i giri motore per l’impostazione della cambiata.

Attualmente i caschi rappresentano un concentrato tecnologico eccezionale. A fronte di un peso contenuto (i migliori hanno raggiunto valori di appena 1300 grammi) garantiscono alti valori di resistenza agli urti. Il guscio esterno è realizzato in materiali compositi come il carbonio o il kevlar, l'imbottitura con particolari polistiroli e il tessuto di rivestimento interno in nomex. La vernice esterna contribuisce a proteggere in caso di incendio essendo in grado di resistere al fuoco creando, col calore, un ulteriore barriera alle fiamme. La visiera è in policarbonato trattata con appositi liquidi detergenti. Feritoie frontali e posteriori assicurano un corretto ricircolo d'aria e ogni casco è dotato di attacchi per i tubicini dell'ossigeno e degli integratori salini, oltre che microfono e auricolari della radio.